30 settembre 2018

Intervista su Artribune (settembre 2018)


Parola all’artista romano che ha fatto della Street Art un terreno di indagine dalle molteplici potenzialità. Mescolando arte urbana, musica e curatela.
David Diavù Vecchiato (Roma, 1970) è un artista, curatore e musicista tra i più noti e attivi street artist italiani ed è sulla scena editoriale e creativa dagli inizi degli Anni Novanta. Oltre ad aver pubblicato numerosi fumetti, copertine e illustrazioni (su La Repubblica, La Repubblica XL, Frigidaire, Blue, Il Cuore, Alias, Linus, Rockstar, Rumore), la sua prima partecipazione a una esposizione collettiva è del 1996 all’Happening Internazionale Underground di Roma e Milano, che gli ha dedicato la prima personale nel 2002.
Numerose le mostre in Europa, Asia e negli Stati Uniti. Ha realizzato una personale per La Triennale di Milano/OFF e, tra le collettive, ha esposto al Museion di Bolzano, al Madre di Napoli e in altri musei italiani e internazionali.
La sua più recente collaborazione con un museo italiano risale all’ideazione e alla realizzazione dell’opera Æquus Parthenopensis sulla scalinata del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Alterna l‘attività visual e curatoriale alla musica. È consulente di collezionisti privati e direttore artistico del progetto Mondopop, che promuove artisti di tutto il mondo vendendo opere e producendo mostre, performance, installazioni ed eventi live. Cura il Festival itinerante di Urban Art, Lowbrow e Pop Surrealism “Urban Superstar Show”.
Dal 2010 è curatore del progetto di Street Art MURo Museo Urban di Roma, museo a cielo aperto da lui ideato e dal 2015 collabora con Sky Arte.
Dal 2016 è ideatore e curatore del progetto GRAArt per conto di ANAS, progetto di Urban Art realizzato a Roma e patrocinato dal MiBAC.
Insegna Fenomenologia delle Arti Contemporanee all’Istituto Europeo di Design di Roma.


Partiamo dai tuoi ultimi lavori: ad esempio ti abbiamo visto impegnato a Napoli in Piazza Pignasecca con Urban Neapolis per presentare il murale Cucù…tetè e in collaborazione con l’Università Roma Tre ‒ DAMS per la realizzazione di dieci murales. Cosa ci puoi raccontare di queste esperienze?
All’Università Roma Tre ho dipinto dieci murales ‒ dedicati ad altrettanti film scelti da me e concordati col Dipartimento ‒ che sono in realtà un’unica opera “totale” e immersiva, visto che tutto il cortile, Aula Parco compresa, sembra ora un grande quadro nel quale si può fisicamente entrare. È la sensazione di trovarsi in un’altra dimensione che il cinema ha dato ai suoi esordi e che mi piace pensare di aver ricreato coi miei grandi dipinti su muro in un luogo dove il cinema si studia.


E a Napoli?
A Napoli in qualche modo è l’operazione opposta: camminando tra i vicoli della Pignasecca vedi spuntare all’improvviso la testa dipinta di un bambino gigante, come provenisse da uno spazio sovradimensionato e stesse gattonando tra i palazzi del centro. Quel bimbo si chiama Mattia Fagnoni ed è stato portato via ai suoi genitori all’età di 7 anni da una malattia rara nel 2015. Proprio con loro ho avviato il progetto Urban Neapolis nel 2016 curando due murales dell’artista polacco M-City e un documentario per Sky Arte e ora, dopo la mia, pensiamo di proseguire con altre opere in città per sensibilizzare le persone al tema delle malattie rare col fine di aiutare economicamente le famiglie colpite da simili drammi.


Qual è la tua definizione di Street Art?
Arte, io la definisco così. L’etichetta “street” le è stata affibbiata perché è in strada, ma è semplicemente arte. Questa pratica di produrre immagini liberamente realizzate nella dimensione pubblica scatena una serie di dinamiche interessanti e quelle sono la vera novità, l’arte di per sé no. Per capirci, un’opera che compri e metti in casa tua ‒ al di là dell’acquisto come investimento ‒ può essere un simbolo per te, può avere un preciso significato affettivo o politico, suscitare in te emozioni e riflessioni, e comunque tutto ciò avviene in una sfera privata. Realizzata in strada la stessa opera diventa arte per tutti e ci costringe a confrontarci con essa, sia esteticamente che intellettualmente. Ci poniamo delle domande che non ci saremmo mai posti: se ci piace o no quell’opera, se la sentiamo come un dono o come un’immagine “imposta”, se ci incuriosisce e ne comprendiamo il senso, se c’è un messaggio dell’artista e in tal caso se lo condividiamo o no, eccetera. L’arte è uno strumento espressivo potente, per questo in molti scelgono di non avere niente a che fare con l’arte nella propria vita. Ecco, la Street Art glielo impedisce, e fa benissimo.


Quali tecniche utilizzi oggi e quali sono le tue preferite?
Per le opere in strada quasi sempre faccio schizzi preparatori per inquadrare le figure nello spazio e definire le proporzioni. Questi mi chiariscono quali foto di riferimento cercare o scattare, poi con la tavoletta grafica al pc passo al bozzetto definitivo e poi, se si tratta di un dipinto, lavoro a pennelli sul muro. In alcune condizioni dal bozzetto preferisco realizzare gli stencil, quindi taglio le “maschere” su cartone e le uso per dipingere a spray sul muro. Nelle opere in studio, oltre a quelle citate sopra, uso le tecniche più disparate, dalla grafite alla china, dai pastelli a olio agli acquerelli, o al collage. Non ce n’è una preferita, è l’opera a scegliere la tecnica con cui vuole essere realizzata.


Come è cambiato il tuo messaggio rispetto agli inizi?
Non so se ci sia mai stato un messaggio. Sensazioni, emozioni e un senso in ogni opera che ho fatto, questo sì. Un significato se vuoi, ma più emotivo che razionale. I messaggi dentro l’opera in questa maniera diventano tanti e a ogni osservatore arrivano in modo diverso. Se intendi poi come sono cambiato io, beh sono un’altra persona rispetto agli inizi, quindi è cambiato il mio approccio al produrre opere che ora è forse più profondo di quando preferivo disegnare immagini dall’impatto più “trasgressivo”. Quello che resta forte e uguale è il legame tra la mia ricerca espressiva e il segno, la linea tracciata: vedo il disegno e la pittura quasi come forme di scrittura. Non sono la composizione verosimile o la prospettiva a guidarmi, quanto il senso e le linee in un’opera. Sono un drogato della linea, potrei tracciare segni per ore e ore, ma non dipingo opere astratte perché il senso è l’altra dominante nel mio lavoro e non voglio che l’immagine perda un proprio senso “comprensibile” per diventare soltanto segno. Soprattutto nell’arte in strada, il senso è ciò che può rendere i murales dei simboli forti, mentre il segno astratto viene per lo più preso per decorazione.


Come ti definisci rispetto alla Street Art? 
Uno sperimentatore di progetti e di linguaggi… o un outsider forse, perché faccio arte in strada, ma se per “street artist” si intende un busker dell’arte visiva allora non lo sono. Dipingo opere, certo, ma ho anche ideato e curato progetti di arte pubblica come MURo Museo di Urban Art di Roma, GRAArt e lo stesso Urban Neapolis. E questo non mi connota solo come curatore. D’altronde ho scritto e disegnato fumetti ma, pur avendo pubblicato su periodici importanti ogni mese per anni, non ho mai pensato di dedicarmi esclusivamente alla carriera di fumettista; ho scritto ed eseguito musiche e canzoni per vari progetti, ma ciò non fa di me un musicista o un cantante. E ho curato i 17 documentari della serie Muro sulla Street Art per Sky Arte, ma la tv non è il mio lavoro. Sono un artista e in quanto tale faccio una libera ricerca con qualsiasi linguaggio ritengo mi sia necessario.


Quanto le città in cui operi hanno influenzato e influenzano il tuo lavoro?
Le città sono come personaggi, con una loro anima e un loro carattere. Sono piene di storie, di segreti, di contraddizioni, e io sono tanto curioso, quindi in ogni luogo che visito cerco di cogliere con empatia e rispetto gli aspetti che mi permettono di conoscerlo e comprenderlo meglio. Questo influenza eccome il mio lavoro. Un progetto o un’opera che realizzo a Napoli è prima di tutto un progetto o un’opera per Napoli, poi un Diavù.


In che direzione va la Street Art? Cosa ti piace e cosa, invece, potrebbe essere ancora fatto?
Ti dirò prima cosa non mi piace della direzione in cui vedo andare certa Street Art. Non mi piace quando amministratori pubblici o committenti privati vogliono scegliere loro sia soggetti che significati delle opere che vanno realizzate, poiché essere artista o curatore richiede anni di lavoro e non è nelle loro competenze e perciò si finisce col trasformare delle potenziali evocative opere d’arte in decorativi motivi da carta da parati o in banali didascalici santini. Si perde così l’occasione di suscitare emozioni e sensazioni profonde e magari un dibattito pubblico, pur di non indisporre il cittadino, che non va invece trattato come fosse audience. Loro esprimano le loro esigenze, ma poi lascino che degli artisti e dei curatori capaci facciano il proprio lavoro. Mi piace invece che questa sia un’arte effimera e temporanea per quanto ci si sbatta a realizzarla al meglio e a lasciare un proprio segno, perché questa caducità la fa somigliare alla bava di una lumaca, o alla vita se preferisci, quindi anch’essa fa riflettere. Mi piacciono però pure quei restauratori che si impegnano nel conservare le opere a lungo anche con l’idea di restaurarle, perché le comunità potrebbero decidere di salvarne qualcuna per i posteri.


In che modo pensi che la Street Art possa aprire nuove opportunità, in ambito artistico?
Prendiamo un esempio vicino: l’Italia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale sono stati edificati tantissimi brutti edifici, interi quartieri dormitorio, infrastrutture titaniche, in grigio cemento o con grandi pareti piatte, senza finestre né decori. Esteticamente sono tanti mostri che devastano i nostri panorami urbani che fino ad allora, grazie alla presenza dei piani regolatori, non avevano subito una tale quantità di orrori da palazzinari speculatori e privi di senso estetico, lasciati a briglia sciolta da politici e amministratori pubblici. Oggi questi sono tutti potenziali spazi per l’arte, che può donare una nuova vita, e questo chi è attento alle dinamiche delle città lo sa. Ma la Street Art non la si può relegare a reinterpretare le brutture delle periferie e basta. Ecco, dobbiamo augurarci che gli stessi costruttori e architetti comincino a prevedere spazi per l’arte nei nuovi edifici che progetteranno per il domani, o che delle leggi dello Stato li obblighino a farlo. Sarebbe un augurato ritorno alla collaborazione tra architetti e artisti visivi, una virtuosa dinamica che in passato ha dato origine ai monumenti e alle strutture antiche che oggi tanto apprezziamo. Architetti, azzardate di più e collaborate con gli artisti.


Che ne pensi delle collaborazioni con altri artisti?
Da parte mia tutto il meglio possibile. Sono più di venticinque anni che in tanti miei progetti includo altri artisti. Collaborare è un continuo confronto, crea stimoli, invita alla crescita e spesso è anche divertente. Certo non è semplice, perché l’artista ha una personalità complessa e la diffidenza o la competizione sono sempre dietro l’angolo, ma anche quelle possono essere utili per migliorarsi. E poi le cose troppo semplici mi annoiano.


A chi è più difficile spiegare ciò che fai e ciò che sei?
A chi conosce solo uno dei miei tanti progetti e mi immagina ancora fermo là, mentre a me interessa muovermi rapido in linguaggi e stili diversi. Ma a ben pensarci, così facendo sono io a rendere arduo il compito di etichettarmi, evidentemente perché non mi interessa. Che siano dunque le opere a “spiegarsi”.


I tuoi prossimi progetti?
Ho appena terminato i dipinti per due copertine di dischi che stanno per uscire, una dell’italiano Francesco Di Bella, ex-cantante dei 24 Grana, e una del musicista polistrumentista del Mali Baba Sissoko, per cui avevo realizzato un’altra cover qualche anno fa. Sto per dipingere due murales a Perugia all’uscita della E45, quasi un benvenuto a chi arriva in auto, e sto iniziando una serie di nuovi lavori su tela, dopo una lunga pausa dallo studio per privilegiare la strada. A Roma mi piacerebbe proseguire nella curatela di GRAArt, che fa dialogare Street Art, storia e arte classica su cui abbiamo girato dieci mini-documentari che ora capiremo come distribuire. Poi ho in testa tanti altri progetti ovviamente, tra cui proseguire Urban Neapolis a Napoli, ma per farli diventare concreti servono produzioni, quindi vedremo se scenderanno sulla Terra o no.


Alessia Tommasini

QUI sul sito di Artribune la versione originale dell'intervista.

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