19 settembre 2013: in Italia passa alla Camera dei Deputati l'estensione alla legge Mancino che punisce l'omofobia come reato di opinione.
Un evento civile da festeggiare, se non fosse che, questa modifica che per diventare legge deve passare anche al vaglio del Senato, afferma che insultare persone omosessuali (o usare l'omosessualità come insulto) è reato soltanto se l'omofobo è un semplice cittadino.
Se a commettere questo crimine d'odio è un'associazione, politica, religiosa, culturale, di istruzione e via dicendo, allora non è più reato.
In tal caso la medesima offesa il voto del Parlamento italiano la considera "libertà d'espressione".
Questo emendamento ridicolo e dal sapore clientelare e mafioso è stato inserito ovviamente per tutelare quei gruppi organizzati che già si sa che commetteranno spesso quel reato. D'altronde il PD è certo che quella legge altrimenti non sarebbe passata con questo Parlamento, perciò se la fa piacere così.
Peccato che la norma aggiunta sia anticostituzionale e contraria alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo dell'ONU, in quanto è contro il fondamentale concetto-base "la legge è uguale per tutti".
Possibile che non ci abbiano pensato i nostri legislatori?
Il nostro Parlamento dovrebbe impegnarsi a proteggere anche le gang di bulli proporrei a questo punto, visto che le loro future offese omofobe saranno ispirate a quelle delle associazioni organizzate.
Ma non lo farà, perché il cittadino di serie B - quello che, seppur devoto antigay, non ha santi in paradiso - lo si può giustamente punire, mentre quello di serie A - interno alle istituzioni, o devoto corrisposto - va tutelato, a costo di varare leggi illegali.
Nessuna novità da segnalare dunque, se non che tutto questo mi ricorda una storia personale che mi ha visto vittima di omofobia in un'altra vita, cioè alle scuole medie.
Tutto cominciò al mercato di via Sannio, zona San Giovanni a Roma, quando convinsi mia madre a comprarmi quelle scarpe grigie con le strisce laterali rosa che mi piacevano tanto.
Andavamo spesso a prendere le scarpe là, era una delle nostre rassicuranti abitudini, e quel giorno, girando tra quei banchi di folcloristici strilloni, non potevo certo immaginare che dalla mattina successiva - ovvero dal momento in cui salii sullo scuolabus - quel colore-tabù ai miei piedi, interpretato come un segnale di guerra, avrebbe scatenato l'ignoranza primitiva di un gruppo di adolescenti di Castel Gandolfo e Castelli Romani annessi, mettendo fine alla mia tranquillità di undicenne quasi-invisibile.
Il primo a prendermi in giro fu quel ragazzino con la faccia tutta sbagliata a cui piaceva la stessa ragazzina che piaceva a me. «A' frocio con le scarpe rosa! Io lo sapevo io che eri finocchio!».
Lui lo sapeva io no, tu guarda.
Comunque, mentre lui colpiva duro su quello che credeva un punto debole (più che mio della ragazzina contesa: «ti pare che mo' quella si fidanza con un frocio? Ho vinto!» pensava di certo nella sua deforme testina di) io rimanevo immobile e in silenzio.
Il maestro jedi che mi parlava dallo specchietto retrovisore dello scuolabus era David Carradine, nei panni di Kwai Chang Caine, il chino-americano non-violento del telefilm Kung Fu, guru di resistenza alle persecuzioni seriali che subiva ad ogni episodio ma che finiva poi col pestare tutti fino a fargli sputare l'anima inzaccherata di sangue coi suoi metodi spezzaossa shaolin.
Pensai: «Caine, parli bene tu che sei cintura bitume, ma io non posso vivermi tranquillamente questo conflitto come faresti tu. Ha un'intera tribù di bulli attorno quell'imperdonabile errore ambulante coi connotati disordinati e due fondi di bottiglia unti al posto di uno sguardo qualsiasi»(non pretendo intelligente, sarebbe bastato uno sguardo capace di un'unica espressione per farlo somigliare a un essere umano). «Un branco di fedayn a lui fedelissimi che fanno la terza media, come lui, ma più della metà sono ripetenti. C'è quello che si chiama Mario e che dimostra 34 anni - eppure ha ancora tutti i brufoli calcificati su quella faccia vermiglia - che ha due braccia da Hulk. Questi sono cinquantenni ostaggi delle scuole medie. Stupidi, incattiviti e col colesterolo già oltre. Devo dimostrarmi superiore. Io SONO superiore.
Però sono solo. Solo solissimo. Come tutti i superiori d'altronde».
Gli attacchi nel frattempo proseguirono anche da altri mini-machi, e ovviamente, perché ormai ero stato segnato col sangue dell'agnello sacrificale dagli anziani del villaggio, tutti potevano sentire da lontano l'odore di preda designata dalla comunità degli alfa…ma io continuavo imperterrito a tacere ai loro insulti e a indossare le mie scarpe con le strisce rosa.
A un certo punto mi sembrava che averle ai piedi mi dava una specie di superpotere. L'eroe "Undicenne-quasi-invisibile" si era trasformato nel mutante "Undicenne-alla-ribalta-con-strisce-rosa".
Cominciavo a capire che erano davvero un segnale di guerra quelle scarpe, e che erano andate a minare la tranquillità di quella piccola comunità.
Stavo debuttando in società in una parte piuttosto difficile dunque, ma almeno ero diverso da tutta quella melma informe, e consapevole di esserlo.
«’A frocio, ma come la mastichi ‘sta gomma, sembra che c’hai er cefalo ‘mbocca!».
«Aoo’, che te metti i pantaloni stretti pe’ facce vede’ er culo?».
E ancora via così, e molto peggio, nella caccia all'insulto più efficace.
Quando però qualsiasi mio gesto era diventato un motivo per attaccarmi sull'argomento e qualsiasi stronzo-ics poteva azzardarsi a buttarmi là un'umiliante battuta contro, sapendosi coperto dai più, io vacillai.
Se neanche un titolo del Daily Planet o un supernemico pentito dà ragione a te in una battaglia in cui sei solo contro il mondo, diventa proprio difficile delegare le tue poche certezze di super-undicenne all'auto-convinzione e basta.
E anche quel David Carradine là, facile parlare bla bla bla, ma se non cominci a menar le mani quando arrivano le prime spinte e i primi insulti declamati in pubblico, che amico sei?
O quando il primo insospettabile bulletto sul tragitto dalla scuola alla fermata del bus si apre la patta mostrandoti il contenuto come fosse chissà quale sua esclusiva.
Dover subire vessazioni omofobe per settimane non è proprio quel che si dice una passeggiata di salute, figuriamoci per un ragazzino di quell'età, ed è un attimo che ti senti troppo estraneo al mondo e troppo tutti contro per resisterci ancora a lungo in quel mondo.
In altre parole, ti è cresciuta la morte nel cuore e sei annientato.
Cenere.
Ma per fortuna quello non era certo il mio unico mondo.
Non era solo la scuola, in cui ormai in poche crudeli mosse l'intero ambiente mi aveva appioppato il marchio del disonore, o almeno questo sentivo io.
Non era solo la famiglia, che, dopo la morte di mio nonno e la separazione dei miei, era esplosa in mille pezzi, tutte schegge piccolissime e taglienti.
E non era solo quell'infinita e noiosa attesa di diventare grandi e liberi il mio mondo.
Erano i fumetti, che divoravo e poi copiavo per ore, sognando di diventare fumettista.
Era la "band" che condividevo col vicino di casa, ore e ore ad ascoltare dischi e poi, io alla chitarra e lui ai bidoni del verderame sul palco (ovvero il suo terrazzo) a tenere svegli tutti i vicini con le nostre nenie da gallinacci sotto tortura.
Era la mia cagna Ghira, che adoravo e che ancora mi manca, e con la quale trascorrevo interi pomeriggi a caccia di lucertole nel grande giardino.
Ed erano i pomeriggi in giro in automobile per Roma con mia madre, che vendeva abbigliamento casa per casa e mi dava l'occasione di stare sempre in mezzo a donne e ragazze che mi offrivano merende e poi si provavano abiti su abiti ascoltando, più per gioco che per curiosità, anche il mio parere.
Un etero-paradiso che mi godevo, nel ruolo di unico maschio, alla faccia di quei burini della scuola media che, ad aver culo, potevano vedere al massimo sottane lise di mamme flaccide e sovrappeso dal buco della serratura.
Insomma, avevo un mio mondo pieno di interessi e la consapevolezza che era molto più ricco di quello di quei mini-machi mi incoraggiava a disprezzarli, anche esteticamente (così come - c'avrete fatto caso - sto facendo anche ora, e lo farò finché non sarà dichiarato reato d'opinione).
A loro era concessa un'agonia pomeridiana di partite di calcetto, chiusi all'oratorio dopo la scuola, dove dire parolacce e fumare, entrambi di nascosto dal prete, era sinonimo di "diventare uomini".
Li disprezzavo con tutto me stesso che quasi mi facevano pena.
Mi feci coraggio, ammisi di essere ormai crollato da tempo, e riportai le esperienze del mio mondo scolastico - ovvero le vessazioni che stavo subendo da settimane - nel mio mondo ricco e sfaccettato - ovvero a mia madre.
Che fu grandiosa.
«Tu rispondigli a quegli stronzi "si, sono gay embè? Io mi diverto due volte voi una sola!". E ora vengo io a parlare col preside!».
Partimmo in spedizione punitiva.
Anzi, visto che andavamo esportando la democrazia del mondo ricco e sfaccettato in quello incivile scolastico, partimmo in “missione di pace” ma carichi di bombe, e prima di entrare nell'edificio incontrammo il ripetente con la faccia spettinata dal tifone fermo sulle scale davanti la scuola.
Io lo indicai a mia madre con gesto eloquente e lei gli si parò in faccia: «tu stai cercando guai, vero? Lascia stare subito mio figlio sennò ti rovino e oggi all’uscita mi fai vedere chi è tua madre che gliene dico quattro pure a lei. Anzi, gliene dirà quattro pure il preside perché ci sto andando adesso!».
Vidi la sua faccia decomporsi, era tutto una smorfia di panico, i lineamenti pendevano in discesa, anzi in picchiata, quella faccia divenne liquida, un brodo gelatinoso, e se possibile ancora più brutta della versione-macho occhialuto e digrignante che riservava a me.
Pregò di non dire nulla ai genitori, e non riuscì a dire altro.
Ma ormai era troppo troppo troppo tardi.
Avremmo potuto compatirlo, immaginando un padre e una madre in grado di educarlo solo alla discriminazione e alla violenza, ma ormai i missili democratici di mia madre erano partiti e lui doveva imparare a prendersi le responsabilità delle proprie azioni.
Questo significa "diventare uomini", caro pisciasotto, mica fumare e dire le parolacce di nascosto là dal prete. Non ti ha mai citato la parola "civiltà" la mamma, eh? Poco male, ci pensa la mia a tatuartela a vita nel cervello, se lo trova.
Gli altri del gruppo si facevano muro, palo, dito a vicenda per non farsi troppo notare e intanto dal cortile mi guardavano con odio, ma io sulla ribalta in cima a quelle scale sapevo che il trucco, quando sei ormai esposto e a conflitto aperto, è non abbassare mai lo sguardo e mostrare una superiorità sovrumana.
Li indicai a mia madre e solo il gesto del mio dito undicenne li trasformò in vapore.
Zùt! Spariti.
Avevo le scarpe con le strisce rosa ai piedi, quindi potevo.
Se loro erano le carogne che si mettevano in tanti contro uno più piccolo io ora ero la supercarogna che trascinava sul campo di battaglia la sua esplosiva madre e il minaccioso preside della scuola. La mia atomica contro le loro micciette. La giustizia era dalla mia.
Ma ce l'avevo portata io.
Passandogli davanti sussurrai al ripetente dalla faccia rimescolata, ormai paonazza e unta di sudore: «Si, so' frocio e allora? Io godo due volte e tu una sola!», pur non avendo granché chiaro questo concetto suggerito da mia madre all'epoca sentivo che poteva rivelargli inaspettati segreti sull'esistenza dell'uomo sulla Terra.
Il resto della battaglia potete immaginarlo benissimo da voi.
Ci ripenso ora e mi chiedo: perché in quelle settimane di inferno non pensai al suicidio, messo all'angolo com'ero?
Sono molti i ragazzini vittime di quell'odio provocato da insufficienza di cultura e civiltà che scelgono la morte come soluzione. Troppe cronache recenti lo raccontano e solo una sensibilità tarata su livelli primitivi può continuare a sopportare un simile orrore senza correre subito ai ripari.
Ma io non pensai ad uccidermi, vuoi perché nessuno in famiglia mi ha mai venduto o ha mai permesso che mi vendessero l'aldilà come un posto migliore di questo, vuoi perché avevo tanti interessi che amavo, tra giochi, fumetti, dischi, libri e passeggiate con mia mamma dalle sue clienti, che non avrei mai lasciato per colpa di un'associazione a delinquere di piccoli ignoranti.
E vuoi perché all'epoca, a undici anni, non avevo la benché minima idea di chi o cosa mi avrebbe attratto sessualmente da maschio adulto, se più i maschi, le femmine o i generi trasversali, quindi non capivo in base a quale strambo dis-ordine di valori quei ragazzini considerassero un gay un individuo inferiore.
O perché dicessero "femminuccia" a qualcuno per offenderlo, dal momento che, nel mio caso come in tanti altri, era piuttosto chiaro che fossi biologicamente un maschio.
Il nome comune di un genere sessuale può essere un offesa?
Ah si?
E in quale malaugurata civiltà totalmente inconsapevole di se stessa, di grazia?
In Italia dite?
E allora perché non farla scomparire questa prevaricazione del maschio sulla femmina, del maschio su ogni altra cosa viva, che noi italiani sentiamo tanto - come altri popoli sottosviluppati d’altronde - e che ci fa credere di dominare ogni diversità?
Allora si che dare della femminuccia a un ragazzino non avrebbe più alcun senso.
E dirgli gay non sarebbe un insulto.
C'è un'età in cui i desideri sessuali non hanno mire chiare e precise, li senti crescere all'improvviso e basta, durante un contatto fisico con una cugina o un gioco con un amichetto.
E chi si permette di colpevolizzare questa magia è un misero imbecille, o peggio se ha anche figliato. Crescete davvero, cari "adulti", prima di azzardarvi ad educare dei figli.
Il ruolo dei genitori, quello dei professori, dei presidi, degli educatori in genere, è dare un muro di certezze affettive ai giovani.
Questo ha fatto mia madre, e io le devo la vita due volte.
Chi ha un figlio maschio ha il dovere di comportarsi esattamente come farebbe con una femmina, insegnargli l’uguaglianza di diritti e di doveri e il rispetto reciproco fra tutti i sessi, che non sono affatto due, ma infiniti.
E chi amministra questa Italia, ancora una volta, non ha perso l'occasione di farci fare a tutti una spiacevole figura.