27 aprile 2018

Intervista sul blog Barbarapicci.com (aprile 2018)

Vorrei iniziare questa nostra conversazione chiedendoti del tuo rapporto con Roma visto il forte legame fra il tuo lavoro e la città. I tuoi progetti, a partire da MURo, Museo di Urban Art di Roma, aprono un dialogo con la città sia dal punto di vista storico-architettonico, sia dal punto di vista sociale nei confronti dei suoi abitanti.
Giusto, “ma Roma e i suoi abitanti lo vorranno questo dialogo con Diavù? O quando un artista in genere applica il suo immaginario visivo in uno spazio condiviso non sta facendo piuttosto un monologo?” verrebbe anche da chiedersi, no?
In fondo qualsiasi intervento nello spazio pubblico o condiviso non è mai frutto di unanime consenso, è anzi in qualche modo una prepotenza, ma l’intellettuale non è al consenso delle masse o alla rassicurante popolarità che deve puntare, bensì ad offrire la propria visione ai suoi contemporanei. Allora, per darti una risposta spero esauriente credo sia necessaria una premessa che spieghi le intenzioni che muovono alcuni dei miei progetti legati a Roma: io ho sempre cercato il collegamento tra le opere d’arte e la Storia dell’umanità. Non credo esistano poteri ‘buoni’, e per questo considero la Storia che studiamo a scuola la biografia dei grandi criminali del passato. O meglio, di quelli che hanno vinto guerre e battaglie e conquistato Stati e potere sterminando i loro contemporanei e che l’hanno scritta quella Storia, con le ragioni registrate tutte dalla loro parte. Perciò, più che la Storia in sé, mi interessano l’Archeologia, la Musica, la Letteratura, la Poesia, il Cinema, e l’Arte tutta, perché nelle immagini che questi linguaggi evocano, assai più sincere secondo me di molti aneddoti storici, si nasconde il vero spirito dell’umanità, là si respira la storia quotidiana della gente comune di epoche lontane, e in quelle opere non c’è ragione e non c’è torto a dominare la scena, ma giocano un po’ tutti sia i ruoli dei buoni che dei cattivi. In questo contesto Roma è la custode di un enorme tesoro, le innumerevoli opere che la civiltà occidentale ha lasciato a Roma e che, conservate oggi nei suoi musei ma anche visibili nelle sue strade, sono come le pagine di un libro che ti narrano 3 mila anni della nostra specie. Roma è dunque la grande vecchia, è come la nonna eterna che ti racconta le storie di un lungo passato, aprendo 1000 finestre nell’immaginazione di un artista o di chiunque abbia la sensibilità di ‘ascoltarla’. Per questo, se in qualche modo provi a risponderle con le tue opere e i tuoi progetti, quel rapporto con la città diventa un dialogo e non è più un monologo. L’amore che mi lega a questa città me la mostra come un’anziana bellissima donna che ha tanto da insegnare a tutti, ma che quasi nessuno più ascolta, presi come siamo a distruggerla, a renderla invivibile per i nostri infimi interessi. Sono pochi i romani e gli italiani che amano questa città-tesoro e che sanno rispettarla e condividerla, in molti ne associano il nome soprattutto a una squadra di calcio perché solo di quella vanno fieri, e quello è anche il massimo sforzo passionale che riescono a compiere nei suoi confronti. Ti direi infatti che, per la quantità e qualità dei suoi tesori culturali, Roma è un bene dell’umanità che dovrebbe essere gestito e amministrato, oltre che protetto, da un ente internazionale e non soltanto dall’Italia.
Aprire quei dialoghi di cui parli con la Città Eterna attraverso l’arte per me è un continuo privilegio, e per questo cerco di dare del mio meglio per rendere le “pagine” di quel libro più visibili. Il MURo – Museo di Urban Art di Roma – è uno di questi, nato nel 2010 come un esperimento frutto di questo amore, nell’intenzione di usare le opere d’arte urbana come delle armi da impugnare per conservare e difendere parte di questo patrimonio, arricchendolo così di nuove opere realizzate da artisti di tutto il mondo, perché Roma è il risultato di una continua stratificazione di opere d’arte che non deve fermarsi mai.


Vorrei citare un progetto presente che mi ha particolarmente incuriosito. Mi riferisco a GRAArt che hai ideato, curato e a cui partecipi come artista. Il riferimento è sempre alla città Eterna, in questo caso al suo mito interpretato in chiave contemporanea. Parlaci del progetto.
Ecco, se Roma è il grande libro millenario di cui stiamo parlando, GRAArt può diventare la sua copertina. Poter dipingere grazie ad ANAS dei murales sulle pareti esterne del Grande Raccordo Anulare che circondano la Città Eterna comporta un’assunzione di responsabilità di cui si deve essere il più possibile consapevoli per commettere meno errori possibili, e per questa ragione ho chiesto aiuto nell’esercitare la mia funzione di curatore alla scrittrice Ilaria Beltramme, che nei suoi libri sa raccontare Roma a tutti con parole semplici e coinvolgenti.
Dietro GRAArt c’è l’intenzione politica di restituire alle periferie dei simboli identitari che, in molti casi, gli sono stati tolti quando in passato sono state depredate dei reperti archeologici trovati poiché viste solo come terre di nessuno, oggetto di speculazione edilizia dove costruire più palazzine-dormitorio possibili, con un minimo di servizi pubblici e pochissimi luoghi di cultura. Questo ha provocato l’esistenza di due città distinte, una Roma centrale, monumentale, ricca di arte e cultura, e l’altra Roma periferica, spesso mal collegata al centro, esteticamente malconcia, e di cui quasi vergognarsi. GRAArt cerca di avvicinarle idealmente.
Ilaria Beltramme ed io perciò raccontiamo ad ogni artista da me convocato le storie e i miti che lei ha selezionato e che sono in qualche modo legate al luogo dove si trova il muro che l’artista dipingerà. Io cerco infatti di coinvolgere colleghi la cui sensibilità possa permettergli di donare un “simbolo identitario esatto” al luogo, cioè un’immagine che racconti in qualche maniera una storia in cui le persone che ci vivono o lo frequentano possano riconoscersi e dunque che possa trasmettergli la fierezza di vivere in quel luogo. Non si tratta di creare bellezza dal nulla chiedendo agli artisti di dipingere ciò che vogliono, come processo di pura estetica, ma di scavare concettualmente nel passato per recuperare la bellezza laddove è stata seppellita, come fuoco sotto la cenere.
È un processo empatico con il territorio che si innesca anche grazie al grande staff composto da persone magnifiche con le quali lavoro, tra cui Mirko Pierri e Giorgio Silvestrelli che sono sul campo ogni giorno con gli artisti e spiegano ogni volta ai cittadini cosa stiamo cercando di fare coi nostri murales e coi nostri progetti in genere.


Oltre alla pittura, ti diletti nella musica, nel fumetto e nella scrittura. Addirittura nella realizzazione di documentari come nel caso di MURo per Sky Arte. In che modo vivi questa pluralità di stimoli? Ci son punti di intergiunzione o viaggiano separati? E soprattutto qual è, se c’è, la disciplina che preferisci?
Ciò che faccio non è poi così visibile credo. Benché alcuni miei progetti – come documentari, rubriche scritte, fumetti, illustrazioni e collage – sono usciti su periodici nazionali e in tv, forse ciò che più si nota del mio lavoro sono i dipinti, soprattutto la produzione in strada, e i progetti di Urban Art. Almeno questa è la mia percezione. La musica addirittura la vivo come una passione segreta da esercitare in intimità, pur avendo registrato colonne sonore per corti e lungometraggi, qualche featuring e un disco molti anni fa. E forse è proprio la musica che mi fa stare meglio. Comunque, uso varie discipline per dire ciò che ho bisogno di dire soprattutto perché credo che l’esistenza sia soprattutto relazione, e che relazionarsi con gli altri ed in genere con il mondo di ieri, di oggi e anche di domani attraverso le proprie opere, possa richiedere linguaggi differenti, linguaggi che trovo stimolante sperimentare. Mi ripugna sentirmi rassicurato da una formula che ‘funziona’, ovvero usare un unico linguaggio e cercare di fissare per forza un codice in ciò che faccio (che in genere punta ad essere quello che riceve più commissioni, più click e più consensi) e dunque ripetere quel codice all’infinito per aumentare man mano il mio ‘pubblico’. Per intenderci, vi piacciono le scalinate con dipinte sopra delle attrici perché avete deciso che mi vengono bene e vi interessa associare il nome “Diavù” soltanto a quelle? Mi spiace, ma non saranno i complimenti, né tantomeno i soldi, a farmi decidere di dipingere soltanto scalinate nella vita, perché mi romperei a farlo, sia le palle che le ginocchia. So che questo è un atteggiamento demodé, dal momento che gli stessi intellettuali negli ultimi decenni hanno assunto i comportamenti dettati dal mondo dell’intrattenimento, sottostando alle regole della popolarità e confondendo la propria figura con quella dei mattatori e delle soubrette, ma questo è il mio caratteraccio.
Un artista non può venir meno al ruolo scomodo di colui che deve rimestare nella coscienza e nel pensiero del proprio tempo, scavando profondamente e gettando in faccia alla società ciò che trova. Io non sono qui per intrattenervi, insomma, ma anzi per rompervi i coglioni. Questo è un intellettuale e dunque anche un artista. Quello che faccio io non lo penso per un pubblico, cioè per una massa, ma per le singole persone, ovvero per i tasselli che formano una società. È come un dialogo con ogni singolo osservatore delle mie opere.
La cosa più difficile è trovare il tempo necessario per fare tutto ciò che vorrei fare, perché si tratta di discipline che vanno esercitate con impegno, tanto studio e anche del coraggio, al di là dell’attitudine di buttarsi a farlo, che è indispensabile ma da sola fa di te soltanto un improvvisatore, spesso mediocre.
Tu porti come esempio la serie di documentari MURO per Sky Arte, nati raccontando nell’episodio pilota l’esperienza del progetto omonimo al quartiere Quadraro di Roma e poi proseguiti con altre due stagioni (presto andrà in onda la seconda tra l’altro) in cui artisti noti girano l’Italia per realizzare ognuno un’opera di Urban Art in una città diversa.
Ecco, la tv è un media diverso dagli altri, che intrattenimento e cronaca hanno impoverito fino a fargli toccare il fondo con programmi brutti, concettualmente ed esteticamente, che umiliano ogni giorno l’intelligenza di chi li guarda. È un linguaggio pieno di regole noiose, difficili da infrangere, che però ti fa sentire come il capitano Achab, che però non deve uccidere Moby Dick ma cavalcarla, addomesticarla ai suoi voleri. Un’impresa che puoi intraprendere in modo significativo solo se hai idee molto chiare e una grandissima sintonia coi tecnici che lavorano con te. Oppure una posizione di assoluta superiorità su di loro.


Il tuo percorso artistico parte dalla fine degli anni ’90, vent’anni in cui, oltre ad aver coltivato la tua ispirazione artistica, hai anche ideato e curato festival sostenendo altri artisti e promuovendo progetti di riqualificazione di zone di degrado. Come convivono queste due anime?
Se la tua ricerca, come ho accennato prima, va oltre le tradizionali tecniche e linguaggi artistici e ti spinge a immaginare di poter fare degli interventi che possano incidere nella società e ad avere idee lungimiranti che vorresti trasformare in progetti concreti di dimensioni rilevanti, ma al tempo stesso ti manca il budget per realizzarli, allora cosa fai? Esci dalla dimensione egocentrica tipica a volte dell’artista e cerchi collaborazioni con altri artisti. La ragione per cui io sono diventato curatore di mostre, di Festival, di progetti di arte urbana, è perché me li ero immaginati esattamente come avrei voluto vederli realizzati e avevo dunque l’esigenza di concretizzarli. Sono andato a cercare chi avrebbe potuto finanziari, ma dove non l’ho trovato non mi sono mai perso d’animo e sono riuscito a realizzarli lo stesso, perché vengo dall’autoproduzione, dalle fanzine, dai manifesti stampati in proprio e incollati in strada di notte, e sono un autarchico che non ha paura di fare tutto il lavoro da solo pur di realizzare un progetto. A Roma si chiama ‘tigna’.

Nasci nel mondo, o col mondo, dei graffiti però hai sempre usato il pennello e non hai mai fatto tag. Nonostante questo, il tuo lavoro ne ha subito l’influenza. Qual è il tuo rapporto con questo mondo e come vivi questa ambivalenza?
Se mi chiedi cosa penso del Writing ti dico che per certi aspetti è come il cubismo: stilisticamente è una ricerca estetica che modifica le forme note rendendosi difficilmente comprensibile, fino a divenire un codice. A me è sempre interessato, l’ho sempre rispettata come forma artistica, e mi ha sempre divertito il fatto che il mondo dell’arte non è mai riuscito davvero ad assimilarlo perché di writer ce ne sono fin troppi nel mondo ed è un fenomeno accessibile che vediamo ovunque, quindi il mercato dell’arte quando lo ha accolto nelle gallerie ha sempre fatto fatica a smerciarlo ai prezzi che avrebbe voluto. Non riesci facilmente a quotare a costi vertiginosi qualcosa di così comune e simile ad altro.
Io ne ho subito il fascino perché sono cresciuto artisticamente in mezzo ai writer, anche se non avevo interesse per la scrittura in sé e nemmeno per il concetto di marcare il territorio, che ritengo poco interessante. Mi è sempre interessato di più stilisticamente, perché sono un malato del segno, della linea grafica da lasciare su un foglio o su una tavola di legno, su una tela o su muro. L’enfasi romanzesca del ghetto e del giovane ribelle che si riscatta scrivendo il suo nome sui muri non mi riguarda, e non è certo quello l’aspetto che mi ha affascinato, ma è piuttosto la bravura e il coraggio dei writer, persone con cui dividevo le pareti del Forte Prenestino di Roma o del Leoncavallo di Milano negli HIU Happening Underground di 20 anni fa, sulle quali io attaccavo i miei dipinti e i miei fumetti e loro le foto dei pezzi che facevano sui vagoni delle metro e dei treni.


Mi hai parlato del progetto di uno studio- galleria aperto al pubblico al Pigneto. Di cosa si tratta?
Di cambiare un po’ rotta. Io finora – se escludi quando lavoro sui murales in strada – ho sempre dipinto in solitudine. Metto le cuffie, disegno, dipingo, e non voglio rotture di palle attorno. E mi piace perché, malgrado mi impegni ad essere più socievole che posso grazie alla curiosità che mi spinge verso i miei simili, ho tendenzialmente un carattere da orso. Eppure sono certo che quando dipingo ‘disturbato’ dalla gente attorno produco cose migliori. Per questo in primavera aprirò uno studio in cui si potrà venire a vedere le opere in progress, proprio come se la strada entrasse nel mio atelier, e si potrà anche acquistare. Inoltre basterà seguire i miei profili social e si vedrà ogni giorno cosa sta succedendo nel Diavù Studio.

Cosa dobbiamo aspettarci dal futuro? Altri progetti che ci vuoi segnalare?
Nessuno dei progetti futuri, perché se ve li racconto mi passa la voglia di farli.
Ti dico però che, mentre i miei fumetti di Macaco & Piteco sono esposti nella mostra “XL Comics, Fumetti in grande stile” alla WeGil di Roma ed editi sul librone della Panini “XL Comics” e la seconda stagione dei documentari che dirigo artisticamente “MURO” dovrebbe partire a breve su Sky Arte, io ho appena finito il mio 2° murale per GRAArt a via di Boccea, sto seguendo il montaggio del documentario che racconta l’intero progetto GRAART e sto per iniziare a dipingere un’opera totale, ovvero vari murales nel parco di un’istituzione che ha per me un forte significato simbolico. Una cosa a cui tengo molto, ma di cui non posso ancora parlare.


QUI sul blog barbarapicci.com la versione originale dell'intervista.

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