22 settembre 2012

Testosterone Crumb


“Robert quando disegna non esagera nulla. Ha uno dei peni più grandi del mondo e  si masturba frequentemente, 4 o 5 volte al giorno”
(Dian Hanson, curatrice di riviste erotiche americane e amica di Crumb).


Va dunque cercata tra un paio di cosce tutta quell’energia che rivoluzionò il fumetto d’autore negli anni ’60 e che lo ridisegnò totalmente come forma di comunicazione?
«A 4 anni avevo già delle erezioni, mi sembra fosse per mia zia, la sorella di mia madre. Mi strusciavo contro le sue scarpe sotto al tavolo. Poi a 5 o 6 anni ero attratto sessualmente da Bugs Bunny».
Parola di Robert Crumb, il capostipite di quell’anarchica maniera di raccontare e disegnare che un ventenne di oggi potrebbe scambiare per l’ingenua ‘grafica’ di un disco hippy del ’68, ma che ha rappresentato una forte contrapposizione politica al sistema dell’epoca: una forma di comunicazione fino a quel momento innocua che diventava pericolosissima contrapponendosi all’informazione manipolata dei media e mostrando schietta tutte le tematiche che l’America puritana nascondeva: dal sesso alle droghe, dall’ipocrisia della famiglia americana modello anni ’50 alla satira sulla religione, diffondendole proprio attraverso il mezzo che più si confaceva alle giovani generazioni: il fumetto.

Ma ricostruiamo i fatti.

Figlio di un ufficiale della marina, proprio come quel Jim Morrison dei Doors, altra vittima degli insegnamenti patriottici e virili di stampo militare che a quanto pare hanno da sempre scatenato effetti contrari a quelli desiderati, Robert è un ragazzino di Philadelfia molto legato ai suoi fratelli, soprattutto all’artista di casa Charles che, a causa della propria impossibilità a relazionarsi con l’esterno che diverrà sempre più cronica conducendolo infine al suicidio, ha esercitato la sua superiorità ‘intellettuale’ in un rapporto di forza nei confronti dei fratelli più piccoli costringendoli a disegnare storie a fumetti per la sua casa editrice immaginaria.
È proprio quella competizione continua nell’inventare e disegnare storie che ha scatenato in Robert il bisogno di trasformare  tutto ciò che lo circondava in racconto a fumetti.


Le prime vittime saranno i suoi compagni di scuola, il vicinato e soprattutto le ragazze, con le quali proprio non riusciva ad avere alcun rapporto: «Prima di essere famoso ero un perdente, non riuscivo ad avere dei rapporti con le donne. Poi sono diventato celebre: non dovevo muovere un dito per rendermi interessante».


E celebre lo diventa nel posto giusto al momento giusto: a metà anni ’60 e a San Francisco, la città dei figli dei fiori dove la Beat Generation aveva fatto scuola e gruppi di rock psichedelico come i Grateful Dead diffondevano il Flower Power nei loro infiniti concerti. “Non ho mai conosciuto quella gente. Sono andato ad un paio di concerti rock e mi sono addormentato”, afferma Crumb, eppure pur non amando quella musica, lui che collezionava già da anni vecchi 78 giri blues e vestiva come un intellettuale europeo anteguerra, proprio in quell’ambiente inizia a pubblicare i suoi primi fumetti autoprodotti e ‘underground’ influenzati dall’uso dell’LSD, e per questi a creare una sfilza di personaggi ‘psichedelici’, come il santone ciarlatano Mr. Natural e il gatto sessuofobo Fritz The Cat, che lo accompagneranno per anni.
Con la copertina del disco di Janis Joplin Cheap Thrills arriva la gloria, ma nel Paese dove la massima aspirazione è vendersi Robert Crumb fa un passo indietro, rifiuta inviti in tv e preziose commissioni (perfino dai Rolling Stones) e inizia anzi a tirare fuori il lato più oscuro di se stesso, pubblicando storie dove la satira sulla borghesia benpensante diviene feroce e intrisa di incesti, razzismo e situazioni sconvolgenti, dichiarando in questo modo che il suo attacco alla ‘normalità’ americana non è certo da ritenersi concluso.


Oggi Crumb vive con moglie e figlia in un paesino vicino Sauve, al sud della Francia.
Si è  lasciato indietro gli Stati Uniti e con questi l’intera cultura del consumo e un’icona che gli sta ormai stretta, si dedica a fumetti sempre più personali e alla sua musica.
Quando può suona il banjo in una band in stile anni ’20, Les Primitifs du Futur.
Certo non rinnega nulla, anzi ammette soddisfatto che quell’energia rivoluzionaria era davvero tra le sue cosce: «…adoro disegnare i corpi delle donne, le forme femminili. E mi sento obbligato a disegnare anche degli uomini bizzarri che fanno loro delle cose, é più forte di me. (…) I miei fumetti sono pieni di atti violenti contro le donne. Lo so. E allora bisogna arrestarmi?».
I tipi della Taschen preferiscono piuttosto celebrarlo e lo fanno mandando alle stampe questa preziosissima edizione dei suoi Sketchbooks che vanno dal 1982 al 2011, in cofanetto da 6 volumi di cui esistono solo 1000 esemplari


Milletrecentoquararantaquattro privatissime pagine di Crumb per 750 euro. E nel 2013 arrivano quelli dal 1964 al 1981.
Roba da prostituirsi per averli.

David Vecchiato.

12 settembre 2012

Neon Park & i Little Feat


È una giornata piovosa del 1971 a Los Angeles. 
Il trentenne Martin Muller, aka Neon Park, è appena uscito dall’ufficio di Herbie Cohen, manager dei Mothers Of Invention, dove è andato a riscuotere la paga per il dipinto della cover di Weasels Ripped My Flesh di Frank Zappa e, passando in auto sulla Sunset Boulevard, vede alla fermata del bus Ivan il gelataio che tenta di riparare dalla pioggia la chitarra sotto la sua t-shirt ormai zuppa. 
Si ferma e gli da’ uno strappo. 



Ivan va su a Silverlake a casa di George Lowell e suggerisce a Martin di mostrare a George i suoi lavori perché i Little Feat avrebbero proprio bisogno di un bravo artista come lui per i loro dischi. 
Inizia così dal secondo album, Sailin’ Shoes, il sodalizio tra i Little Feat e Neon Park, che diviene un ideale quinto elemento della band composta da Lowell alla voce e chitarra, dal tastierista Bill Payne, il bassista Roy Estrada e il batterista Richie Hayward. 
Visti i primi risultati a Park viene data totale libertà nella realizzazione delle cover.


Lowell, cantautore e talento della slide guitar, ha costituito i Little Feat con Payne nel 1969, dopo essere uscito dalle Mothers Of Invention. 
Pare avesse proposto la canzone Willin’ a Zappa che si irritò per i riferimenti alle droghe e gli consigliò di farsi una sua band. 
“Little Feet” lo chiamava Jimmy Carl Black dei Mothers per i suoi piedi corti e grassi e lui così chiamò il suo progetto che non ebbe mai un grande successo di pubblico pur rappresentando un punto di riferimento per molti artisti tra cui Robert Palmer, The Byrds, Rolling Stones, Led Zeppelin, Van Halen, The Black Crows e molti altri.
Down on the Farm del 1979 è il settimo album in studio e l’ultimo dell’era di Lowell, scomparso a 34 anni 5 mesi prima dell’uscita del disco. Lowell aveva però già annunciato la fine dei Little Feat, che da un paio di album erano sempre più distanti dal suo stile cantautoriale, e aveva da poco inciso il suo album solista Thanks.
Sulla cover di Down on the Farm Neon Park cita la pin up dell’opera di Gil Elvgren Finishing Touch, e la trasforma in una delle sue celebri papere antropomorfe, come già aveva fatto con le dive anni 40 Marilyn Monroe, Jane Russel, Marlene Dietrich e Betty Grable.



Dopo 9 anni di separazione i Little Feat si sono riuniti nel 1988 con Craig Fuller alla voce, a cui è subentrato nel 1993 Shaun Murphy.
Anche Neon Park come Lowell è scomparso prematuramente, a 56 anni nel 1993. 
Il suo stile pittorico ricco di elementi pop è da considerarsi a tutti gli effetti parte di quella Lowbrow Art che ha dato il via alla corrente pittorica del Pop Surrealismo. 


Artista: Little Feat
Album: Down on the Farm
Design: Neon Park
Label: Warner Bros, 1979

8 settembre 2012

Firehouse Kustom Rock Art Company tour. Una chiacchierata con Chuck Sperry.


Non ci crederete ma all’inizio di tutto ci fu la Beat Generation.
Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso e gli altri che sessant’anni fa fondarono quel movimento letterario, artistico e poetico insegnando ad infrangere le regole dell’esistenza basate sul nasci-produci-consuma-crepa inculcate dagli organi del Potere e della grande economia alla borghesia americana del dopoguerra. 
Quegli intellettuali hanno guidato molti americani e non solo verso la ricerca di personali stili di vita per seguire le proprie aspirazioni vivendo liberi da moralismi e discriminazioni. Li hanno indotti a combattere la società consumista, a sperimentare droghe, a esplorare la rivoluzione sessuale e esprimere idee contro il Sistema.
E con la filosofia On The Road gli hanno instillato la mania del viaggio.
Nella culla del Beat, quella San Francisco dove resiste ancora la libreria City Lights fondata dal poeta Ferlinghetti, sono cresciuti pensatori e artisti, figli più o meno sovversivi di quell’onda anarchica, come musicisti rock, esponenti del fumetto underground anni 60 e 70, artisti di strada e creatori di nuove forme d’arte tra cui la Custom Car Art, la Lowbrow Art e la Poster Art.
I due splendidi artisti californiani di cui vedete qui riprodotte le opere sono, con Frank Kozik, Coop e altri, tra i massimi esponenti statunitensi di quest’ultima.


“La leggenda dei Firehouse inizia a metà anni 80” mi racconta Chuck Sperry, il più giovane dei due artisti. “E Ron Donovan è la leggenda. 

Ron fondò il gruppo di sabotaggio WANG (We Are No Gentleman) nel 1985, in occasione della sua prima mostra nel bagno dei maschi del California College of Arts and Crafts. Questi elementi di disturbo della quiete del college attaccarono i loro poster nei bagni e, per inaugurare la loro mostra illegale, invitarono tutti gli studenti a spostarsi dalla mensa ai bagni dove avevano riempito i lavandini di birre e patatine.
Ron iniziò così a farsi notare e a produrre poster e copertine di dischi per i gruppi rock locali, tra le quali la storica band surf di San Francisco The Mermen. Stampò vari poster sovversivi a tema politico e la collezione di t-shirts Reaganwear con immagini e slogan senza pietà contro l’allora presidente degli USA.
La storia di Firehouse Kustom Rock Art Company inizia quando Ron conosce Chuck.



«Nel 1994 io mi ero spostato da New York a San Francisco da cinque anni e avevo già collaborato con la casa editrice Last Gasp e con il magazine di fumetti politici World War 3 Illustrated, ricorda quest’ultimo. “Lavoravo anche a Comic Relief, una libreria su Haight Street specializzata in fumetti underground, Robert Crumb, Fantagraphics e simili. 
Ron aveva lo studio sulla stessa via e un giorno si presentò con un poster serigrafato. Era il suo primo poster per il famoso Fillmore Club e lo attaccò sulla vetrina del negozio. Gli dissi: “figo! Tu usi i poster come tali e non solo come opere d’arte!”. Vide le mie opere e iniziammo a collaborare.
Lo studio di Ron era ormai troppo piccolo per due allora occupammo una vecchia caserma dei vigili del fuoco. Usavamo il palo dei pompieri per scivolare giù al laboratorio, mettevamo i nostri inchiostri nelle loro pompe idrauliche e quell’edificio si dimostrò perfetto per il nostro lavoro. Vivevamo e lavoravamo in totale libertà senza nemmeno pagare l’affitto”.
Da lì il nome scelto dal duo. 
“Noi due abbiamo avuto la fortuna di esserci incontrati a San Francisco e di lavorare in quella città che ci ha offerto l’opportunità di conoscere l’old school di grandi come Stanley Mouse, che negli anni 60 e 70 ha dato l’immagine ai Grateful Dead e ha disegnato e stampato per i Beatles, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Led Zeppelin, Eric Clapton e tanti altri. Mouse, Victor Moscoso, Gary Grimshaw e altri vecchi maestri hanno lavorato con noi e ci hanno trasmesso la loro esperienza. Per questo sappiamo come realizzare e stampare poster con la massima qualità e attenzione. Il potere della Rock Poster Art è che la colleziona chi ama l’arte e chi ama la musica. E chi ama entrambe”, conclude Ron.
“Fin dall’inizio Ron e io abbiamo iniziato mettere tutti i nostri guadagni nella produzione della nostra arte, a lavorare quindi coi più importanti musicisti del mondo e a viaggiare seguendo le band per promuovere il nostro lavoro. Siamo stati in Italia tantissime volte dal 1999 in poi».

Io personalmente ho conosciuto i Firehouse proprio alla loro prima data italiana del 1999. Chuck e Ron esponevano al Leoncavallo di Milano grazie a quell’indispensabile esperienza che è stata l’Happening Underground Internazionale, Festival d’arte organizzato per oltre dieci anni dall’artista Marco Teatro, l’unico evento che negli anni 90 promuoveva con continuità l’arte underground, trattando temi che andavano dal fumetto al writing, fino alla Poster Art appunto.
Io realizzai il catalogo assieme a Teatro. 
I Firehouse la copertina dello stesso e la locandina del Festival.



«Probabilmente il nostro tour europeo più ricco di date è quello di quest’estate. Abbiamo quattordici incontri uno dopo l’altro. Siamo stati a Mondo Bizzarro a Roma e al club Shake a La Spezia e al Magnolia di Milano coi Malleus e altri artisti. 
Abbiamo aperto la data dei Bad Religion e dei Peawees all’Alcatraz e siamo alla Mole Vanvitelliana di Ancona. 
In dieci anni abbiamo fatto ventidue mostre in Europa viaggiando come una rock band. Ma di solito una band resta solo una notte in una città, invece noi siamo sempre restati per giorni e il nostro approccio ci ha dato la possibilità di conoscere realtà autentiche come i centri sociali, le crew di writer e di tanti altri artisti con cui abbiamo collaborato e passato momenti fantastici. Siamo stati ospiti in molte case occupate e abbiamo conosciuto varie situazioni al margine della società. Ora siamo eccitati perché stiamo partendo per il grande festival di Glastonsbury e là l’atmosfera che ci aspetta è davvero incredibilmente fricchettona. Là stamperemo dal vivo per cinque giorni e i risultati li porteremo in tour a Londra e Parigi, prima di tornare a San Francisco».




5 settembre 2012

Il Diavolo e Daniel Johnston. Una chiacchierata con Daniel.


Daniel Johnston è un mostro buono, una leggenda dell’indie rock, un pazzo diabetico. 
Lui si considera un artista visivo, e dice di fare il musicista solo per caso. 
Il giorno in cui avrebbe dovuto registrare con Lou Reed è stato arrestato perché ha vandalizzato la Statua della Libertà con una scritta contro Satana. 
Due settimane prima dalla sua prima mostra davvero importante, preparata in collaborazione con l’artista Ron English, è stato internato in un ospedale psichiatrico. 
Ma Daniel Johnston è soprattutto un mito. Nel disco “The late Daniel Johnston” mostri sacri del rock si cimentano in cover dei suoi brani, da Tom Waits a Beck, dai Flaming Lips agli Eels, e ancora Mercury Rev, Teenage Fanclub, Tv On The Radio e molti altri. 

Come molti altri la prima volta che ho visto un suo disegno era su una maglietta che indossava Kurt Cobain ed era il personaggio Jeremiah la rana che guardava stupita chiedendo: “Hi, how are you?”

Cobain adorava la musica di Daniel Johnston, e così i Sonic Youth, i Butthole Surfers e il papà dei Simpson Matt Groening.
La prestigiosa Biennale del Whitney Museum of American Art di New York del 2006 ha esposto i suoi lavori ed è stato girato un film su di lui. 
Eppure la storia che vi sto per raccontare è quella di un uomo molto fragile, nato a Sacramento, California, nel 1961.

Lo chiamo a casa alle 12 di sabato ed è suo papà Bill a rispondermi. «Daniel sta dormendo, aspetta che lo sveglio»
Bill si occupa degli impegni di suo figlio, risponde lui al telefono. Non hanno computer in casa. Mi chiede se voglio spedirgli l’intervista via posta ordinaria e mi da’ l’indirizzo della loro casella postale. 
Si sentono dall’altra parte della cornetta gli odori della provincia americana, le camice a scacchi, i marshmellows sul barbecue, i fucili nei portabagagli delle jeep. Dopo qualche minuto arriva Daniel, la voce stridula e forse ancora un po’ impastata dal sonno. Non si indispettisce ché l’ho svegliato, anzi è contento che voglio parlare di lui e della sua arte. “Disegno da quando ero bambino” mi dice. «Ho sempre disegnato, ho sempre prodotto tantissimi fumetti soprattutto, e molti personaggi che ho creato mi accompagnano fin dall’infanzia. Allora il mio obiettivo era quello di guadagnarci di che vivere. Sto ancora cercando di pubblicare un libro coi miei fumetti. Ho avuto delle offerte, ma mi sto guardando attorno»
Ha iniziato a fare fumetti a otto anni. 
«La maggior parte erano sul mio gatto, che trasformavo in supereroe. Qualche volta erano storie della Bibbia, ma adoravo soprattutto Godzilla e King Kong. Mia mamma doveva comprarmi continuamente della carta».
Alle scuole superiori Daniel scopre i Beatles, che diventano un’autentica ossessione per lui. Passa ore e ore a studiare al pianoforte i pezzi dei 4 di Liverpool. «I Beatles sono i più grandi”, ha dichiarato otto anni fa, «torneranno insieme alla fine del mondo. Loro torneranno e torneranno presto. Marilyn Monroe tornerà. Sarà una specie di riunione di famiglia».
Dopo le superiori Daniel frequenta la scuola d’arte in Ohio e, perdutamente innamorato della sua compagna di banco Laurie, che lascia il college per sposarsi incinta, Daniel inizia a registrare canzoni dedicate a quell’amore non corrisposto. “Songs of pain” del 1981 e “More songs of pain” dell’83 sono entrambi lo-fi e amatoriali, registrati su un registratore a cassette Sanyo da 59 dollari.
Dovendo interrompere la scuola a causa delle sue frequenti depressioni, si trasferisce a Houston col fratello Dick. Nel garage registra “Yip/Jump”


Cambia nuovamente città e va a vivere a San Marcos, dove registra “Hi, how are you?” nel mezzo del suo primo forte crollo di nervi. 
Quando la famiglia ritiene che sia arrivato il momento di farlo ricoverare Daniel parte con una compagnia di giostrai e per nove mesi lavora con loro in Arizona, Colorado e New Mexico. Finché non si stabilisce ad Austin in Texas perché aveva sentito dire che fosse una specie di Mecca del fumetto underground. 
È il 1984 quando conosce l’artista Ron English. Mentre quest’ultimo dipingeva i clown Ronnie McDonald’s sovrappeso che lo hanno reso celebre e che fanno da testimonial al film “Supersize me”, diretti contro il colosso dei fast food USA, Daniel ci lavorava diligentemente dentro. «Quando ci siamo conosciuti Daniel distribuiva cassette di fronte a un club. Mi ha dato una cassetta e si è presentato: ciao mi chiamo Daniel Johnston e sono il songwriter dell’anno», ricorda Ron.
Parlarono di fumetti e del loro comune universo popolato da personaggi da cartoon, e divennero inseparabili. In quel periodo Daniel stava attraversando un’altra fase della sua malattia mentale. Nel 1986 Ron si trasferisce a New York e si perdono di vista. A metà anni 90 tenta di contattare Daniel ma nessuno sa indicargli dov’è finito. 
Il suo ultimo disco “Fun” è di 5 anni prima. 

Daniel & Ron English

Lo ritrovò Susan, la sorella di Ron, a Waller in Texas, dove vive tuttora. Era tornato coi suoi genitori, ed era vittima di continui stati depressivi che lo tenevano spesso costretto a letto, lontano dalla sua musica e dalla sua arte. Ron lo raggiunse, provò a coinvolgerlo nel preparare una mostra assieme, con una performance artistico-musicale, ma due settimane prima dell’inaugurazione Daniel entrò in un ospedale psichiatrico. Viene in mente un suo disegno in cui, legato con la camicia di forza e incatenato, grida: "io devo uscire di qui!! Perché devo andare a MTV!!"
Ha anche una proposta dalla Elektra ma si rifiuta di firmare perché teme che i Metallica, che hanno un contratto con quell’etichetta, siano legati a Satana. 
Attende La Grande Tribolazione, che dice «è nella Bibbia, nel Libro delle Rivelazioni. Molti supereroi vi sono descritti. Parlano di angeli, ma è tutto scritto là se apri la mente quando lo leggi. Dio non lascerebbe iniziare una Grande Tribolazione se non ci fossero i supereroi là attorno»
Dopo numerosi ricoveri e cure antidepressive da fine anni 90 il suo stato di salute mentale migliora. «Ora la musica mi da’ soddisfazione perché mi da’ di che vivere e il disegno mi da’ continue soddisfazioni perché posso continuare a far vivere nei miei disegni e nei miei fumetti tutti i personaggi che ho creato fin dalla mia infanzia», mi racconta.


Già, perché per Daniel i suoi personaggi, che sono anche nelle sue canzoni, esistono davvero. 
Jeremiah la Rana è il suo alter-ego, è la pura innocenza mai contaminata dall’esperienza. È il suo mondo infantile rimasto intatto. “Io sono un bambino nel mio universo! Io vivrò per sempre!” recita. 
Poi c’è The Duck, una papera che sa guidare carriarmati, usare il computer e suonare rock’n’roll. È disegnata come un pene con due testicoli. «Mi hanno detto i miei amici che era fallica e solo allora mi sono accorto che era vero»
Sassy Fras è il gatto dell’infanzia di Daniel. 
Joe il pugile è un uomo che combatte contro i suoi demoni, poi c’è Laurie, la sua eterna musa e ossessione amorosa. Per lei ha scritto tutte le sue canzoni d’amore di questi 20 anni. E nel circo dei suoi personaggi ci sono mostri buoni come King Kong e Frankenstein. Quando afferma «io amo Frankenstein perché amo me stesso», si capisce la loro origine. 
Poi c’è Casper il fantasma, reso invincibile dalla propria morte, e infine l’immancabile Capitan America che, come i giusti delle vicende bibliche, difende il bene con ogni mezzo. «Il mio personaggio preferito è Capitan America, lui è il mio eroe» ci tiene a precisare, «e il suo disegnatore Jack Kirby è il mio autore di fumetti preferito, ho studiato i suoi disegni per 24 ore al giorno. E la passione che ho per Capitan America è il riflesso del mio amore per gli Stati Uniti. Ho viaggiato in tutto il mondo ma amo il mio Paese. Sono stato anche in Germania e là mi sono entusiasmato davvero, perché sono appassionato di Seconda Guerra Mondiale»



C’è chi potrebbe restare di stucco di una simile risposta. 
E magari immaginare Daniel che, dopo l’intervista, attacca il ricevitore e va a bruciare qualche nemico del Bene, in quel macho macho Texas che ha dato i natii ai George Bush, padre e figlio. 
Ma non è così. 
Per Daniel realtà e immaginazione non sono poi così diversi. Infatti non solo i suoi personaggi sono vivi. «Per me i film dell’orrore, “Ai Confini della Realtà” o le commedie, esistono davvero ed è fondamentale che io sia in grado di esprimere queste cose nella mia arte perché così diventano reali e concreti per me. Non sono veri finché non gli disegno una cornice attorno»



E il Diavolo, dov’è finito in questa storia? 
«Non lo so, hanno cambiato anche il titolo del film su di me all’ultimo momento, chiamandolo "The Devil and Daniel Johnston”. 
Forse perché mi vogliono a fianco al diavolo. Tutti vogliono vedere Daniel vicino al diavolo. 
Ma ricordati che non si deve giocare col Diavolo, perché lui bara».

(tnx to my sista Ila, che ha telefonato al grande Daniel assieme a me <3)

3 settembre 2012

Baci dalla provincia. Una chiacchierata con Gipi.

Ecco una vecchia recensione con breve intervista a Gianni, detto GIPI.
Era l'autunno del 2005 e del suo libro "Questa è la stanza", edito da Gallimard in Francia e da Coconino Press in Italia, scrivevo così:


La differenza fra la città e la provincia è nell'aria. 
In provincia è molto più pesante.

Certo ci sarà più ossigeno, ne convengo, ma misto a tonnellate di monotonia. Le stesse facce, le stesse frasi, gli stessi pettegolezzi trascinati per anni, decenni, per vite intere.

Ogni mattina lo stesso buongiorno dalla stessa persona che ti si rivolge con lo stesso commento sul tempo, che faccia troppo freddo, troppo caldo o troppa pioggia c’è sempre qualcosa di troppo per la provincia.

Troppa noia, questo Gipi lo sa perché lui la racconta la provincia, fregandosene di mantenere buoni rapporti col vicinato che ti dà le previsioni del tempo lui racconta tutto, racconta della curva dove i ragazzini per vivere al massimo si vanno a schiantare col motorino, racconta dei nuovi poliziotti arrivati in paese che ti rovinano la vita senza neanche farci caso, racconta del cattivo tossico del paese e dell’‘aghino’ che lo ha fatto fuori.
Per noi è ‘tradizione’ Goldrake o il ciocorì, quelle tradizioni ancorate ai valori umani chi le ha mai viste? Appartengono ai ricordi dei nostri nonni che li ripetono a pappagallo come copione dei pranzi domenicali. Noi di ‘old school’ conosciamo i ragù, le piadine e i vari piatti locali da franchising per palati ‘slow food’. 
Mi interessa mettere in scena dei temi molto seri e farli affrontare da personaggi completamente impreparati. Impreparati a vivere, a risolvere le situazioni. Spesso privi di una idea di bene alla quale riferirsi al momento di dover scegliere il proprio percorso. Questo è il modo in cui io e il gruppo di ragazzi con cui ho trascorso l'adolescenza, siamo cresciuti. Una improvvisazione di comportamento. Senza istruzione e senza istruzioni di alcun tipo”

Racconta una provincia trasformata, quella periferia dilatata nata dalla manipolazione culturale avvenuta attraverso la televisione, accoratamente spiegata da Pasolini a metà anni 70 e di cui noi siamo il risultato. 


E così Gipi racconta tutta l'Italia, che è una grande provincia frammentata dove i cosiddetti giovani crescono facendo lo slalom tra un modello di vita MTV e uno Giochi Preziosi.

Fa questo ormai da quindici anni coi fumetti e da cinque con i cortometraggi. E’ il matto del villaggio in edizione speciale: scrive i dialoghi, li legge ad alta voce, li recita, finché non filano lisci come nella realtà. Poi lascia fare ai personaggi, li lascia liberi di crescere e impadronirsi della storia, di divertire e sorprendere lui stesso che ne è l’autore. 

«Quando i personaggi iniziano a raccontarmi le cose (perchè è così che succede) mi trovo a specchiarmi nei loro comportamenti, mi ricordo (ogni volta da capo) quanto siamo rimbecilliti dal mondo moderno. Spesso i ragazzi delle mie storie vogliono "le cose". Spesso sono preda dell'egoismo più sfrenato. Solo un senso di fraternità all'interno del gruppo li unisce, all'esterno solitamente non vedono niente. Non c'è un giudizio in questo. Lo ripeto: io mi specchio nei personaggi. Sono come loro, un ex ragazzo cresciuto nei consumi e nel rincoglionimento mediatico. La differenza cruciale, tra me e i personaggi delle storie è che io, a volte, me ne rendo conto. I miei personaggi non se ne accorgono mai. Il batterista della band protagonista di "Questa è la stanza" ha una passione per l'estetica del nazismo. Una cosa terribile , a pensarci, ma vera. Il batterista della band in cui ho suonato per anni aveva esattamente questi "gusti". Era una leggerezza, una passione inconsapevole».





Questa è la stanza racconta le vicende di 4 di questi "ragazzi inconsapevoli". 
Hanno una band in provincia e sogni di gloria, di fans, palchi e luci della ribalta. «Ho visto i ragazzi incontrarsi, andare a suonare, trovarsi a fare i conti con il mondo "esterno" alla stanza e con le sue regole. E li ho visti nelle loro relazioni con i genitori, con gli amici e pure con la legge». 
Così Gipi ha visto e così ce l’ha raccontato.

David Vecchiato, ottobre 2005


(Gipi all'opera, estate 2002)

2 settembre 2012

L'insostenibile normalità dell'essere


Un'infelice definizione la rese nota come "la fotografa dei mostri" ma il contributo che Diane Arbus diede alla fotografia fu molto più rivoluzionario di una semplice testimonianza delle imperfezioni fisiche o delle perversioni umane. 



È vero, amava ritrarre freaks e altri fenomeni da baraccone, travestiti, nudisti, nani, puttane dominatrici e clienti dominati e questo sarebbe già bastato a sconvolgere l'America puritana degli anni 60. Per provocare l'indignazione del pubblico sarebbero bastati l'amore e l'empatia che mostrava verso i diversi, che definiva "aristocratici" perché avevano superato il trauma esistenziale di cui, secondo lei, ognuno di noi ha paura e che non trattava con pietismo ipocrita né con pruriginosa curiosità. 
Ma la sua grande intuizione non fu in quel coinvolgimento, che comunque le sconvolse la vita. 



Se al primo riconoscimento ufficiale a lei dedicato, la mostra al MOMA di New York del '65, le sue foto ricevettero pesanti critiche e addirittura sputi da parte del pubblico non è solo per la sua spregiudicatezza nello spingersi in territori estremi, che lei comunque definiva invisibili eppure sotto gli occhi di tutti. 
Fu la sua sfrontatezza nel mostrare i soggetti della ricca borghesia, i militari patrioti, i premiati ai concorsi di bellezza, ritratti in situazioni goffe e imbarazzanti o in pose che ne rivelavano l'assoluta incoscienza di sé. 
Il che li rendeva assai più mostruosi dei "mostri" delle foto a fianco.



Sbattere in faccia a un'America la propria mostruosa stupidità fu la grande rivoluzione di Diane Arbus. 
«Sono nata per salire la scala della rispettabilità borghese e da allora ho cercato di arrampicarmi verso il basso, il più rapidamente possibile» diceva di se stessa. 

Diane Nemerov nasce nel 1923 da una famiglia dell'alta borghesia ebrea che, a dispetto della grande depressione del '29, fece studiare i tre figli con costosi metodi pedagogici tesi a svilupparne il talento e la sensibilità artistica (il fratello fu poeta e premio Pulitzer, la sorella scultrice). Da lì alla consapevolezza della propria condizione di privilegiati, quindi ai sensi di colpa per quella che lei definì "dolorosa sensazione di immunità", il passo fu breve. 



Diane studiò Goya e poi Grosz e i pittori espressionisti, ma dopo inizi incerti come pittrice arrivò alla fotografia divenendo assistente del marito Allan Arbus, che lavorava per riviste prestigiose come Vogue e Glamour. 
Nel '57 la fotografa newyorkese lascia il patinato mondo della moda e, tra frequentazioni di maestri dello scatto e artisti della controcultura, si spinge nel regno del proibito armata della sua fotocamera Leica. 
I suoi soggetti non saranno le vicende o i protagonisti della storia americana degli anni 50 e 60. Non il maccartismo (guardatevi la caccia ai sospetti comunisti raccontata nel film di George Clooney Good Night, And Good Luck del 2005) né le speranze di pace e giustizia incarnate dai Kennedy e da Martin Luther King, non le culture underground o le lotte contro la guerra in Vietnam.


«Diane Arbus fotografava i perdenti della Terra e quando portava le sue immagini crude alle gallerie o ai giornali, gli art director la cacciavano o la ignoravano, perché le sue schegge del dolore venivano giudicate di "infimo ordine" e non pubblicabili», racconta il libro Della fotografia trasgressiva curato da Pino Bertelli. 

Diane Arbus sceglie la strada del dolore che per altri è orrore. 
Va a conoscere persone sofferenti di deformità congenite che fotografa nelle loro camere da letto a riprova del rapporto di intimità e fiducia che riesce a instaurare: «Io mi adatto alle cose malmesse. Intendo dire che non mi piace metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, non la metto a posto. Mi metto a posto io»



Poi a luglio del 1971 il suicidio. 
L'hanno trovata nella vasca da bagno, vestita, coi polsi tagliati e piena di barbiturici. 
Dopo la morte in molti hanno amato e citato le sue immagini. Stanley Kubrick l'ha fatto inserendo le sue gemelline inquietanti in Shining e Hollywood l'ha ricordata a modo suo con il film FUR del 2006, con Nicole Kidman nel ruolo della Arbus. 
Ma a guardar bene, malgrado quello sfocato ritratto hollywoodiano, le sue foto nitide e feroci bruciano ancora.

David Vecchiato