21 settembre 2013

Libertà di omofobia e due scarpe a strisce rosa


19 settembre 2013: in Italia passa alla Camera dei Deputati l'estensione alla legge Mancino che punisce l'omofobia come reato di opinione. 


Un evento civile da festeggiare, se non fosse che, questa modifica che per diventare legge deve passare anche al vaglio del Senato, afferma che insultare persone omosessuali (o usare l'omosessualità come insulto) è reato soltanto se l'omofobo è un semplice cittadino. 
Se a commettere questo crimine d'odio è un'associazione, politica, religiosa, culturale, di istruzione e via dicendo, allora non è più reato. 
In tal caso la medesima offesa il voto del Parlamento italiano la considera "libertà d'espressione". 

Questo emendamento ridicolo e dal sapore clientelare e mafioso è stato inserito ovviamente per tutelare quei gruppi organizzati che già si sa che commetteranno spesso quel reato. D'altronde il PD è certo che quella legge altrimenti non sarebbe passata con questo Parlamento, perciò se la fa piacere così.
Peccato che la norma aggiunta sia anticostituzionale e contraria alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo dell'ONU, in quanto è contro il fondamentale concetto-base "la legge è uguale per tutti". 
Possibile che non ci abbiano pensato i nostri legislatori? 

Il nostro Parlamento dovrebbe impegnarsi a proteggere anche le gang di bulli proporrei a questo punto, visto che le loro future offese omofobe saranno ispirate a quelle delle associazioni organizzate. 
Ma non lo farà, perché il cittadino di serie B - quello che, seppur devoto antigay, non ha santi in paradiso - lo si può giustamente punire, mentre quello di serie A - interno alle istituzioni, o devoto corrisposto - va tutelato, a costo di varare leggi illegali. 
Nessuna novità da segnalare dunque, se non che tutto questo mi ricorda una storia personale che mi ha visto vittima di omofobia in un'altra vita, cioè alle scuole medie.

Tutto cominciò al mercato di via Sannio, zona San Giovanni a Roma, quando convinsi mia madre a comprarmi quelle scarpe grigie con le strisce laterali rosa che mi piacevano tanto.
Andavamo spesso a prendere le scarpe là, era una delle nostre rassicuranti abitudini, e quel giorno, girando tra quei banchi di folcloristici strilloni, non potevo certo immaginare che dalla mattina successiva - ovvero dal momento in cui salii sullo scuolabus - quel colore-tabù ai miei piedi, interpretato come un segnale di guerra, avrebbe scatenato l'ignoranza primitiva di un gruppo di adolescenti di Castel Gandolfo e Castelli Romani annessi, mettendo fine alla mia tranquillità di undicenne quasi-invisibile.
Il primo a prendermi in giro fu quel ragazzino con la faccia tutta sbagliata a cui piaceva la stessa ragazzina che piaceva a me. «A' frocio con le scarpe rosa! Io lo sapevo io che eri finocchio!»
Lui lo sapeva io no, tu guarda. 
Comunque, mentre lui colpiva duro su quello che credeva un punto debole (più che mio della ragazzina contesa: «ti pare che mo' quella si fidanza con un frocio? Ho vinto!» pensava di certo nella sua deforme testina di) io rimanevo immobile e in silenzio. 

Il maestro jedi che mi parlava dallo specchietto retrovisore dello scuolabus era David Carradine, nei panni di Kwai Chang Caine, il chino-americano non-violento del telefilm Kung Fu, guru di resistenza alle persecuzioni seriali che subiva ad ogni episodio ma che finiva poi col pestare tutti fino a fargli sputare l'anima inzaccherata di sangue coi suoi metodi spezzaossa shaolin.
Pensai: «Caine, parli bene tu che sei cintura bitume, ma io non posso vivermi tranquillamente questo conflitto come faresti tu. Ha un'intera tribù di bulli attorno quell'imperdonabile errore ambulante coi connotati disordinati e due fondi di bottiglia unti al posto di uno sguardo qualsiasi»(non pretendo intelligente, sarebbe bastato uno sguardo capace di un'unica espressione per farlo somigliare a un essere umano). «Un branco di fedayn a lui fedelissimi che fanno la terza media, come lui, ma più della metà sono ripetenti. C'è quello che si chiama Mario e che dimostra 34 anni - eppure ha ancora tutti i brufoli calcificati su quella faccia vermiglia - che ha due braccia da Hulk. Questi sono cinquantenni ostaggi delle scuole medie. Stupidi, incattiviti e col colesterolo già oltre. Devo dimostrarmi superiore. Io SONO superiore.
Però sono solo. Solo solissimo. Come tutti i superiori d'altronde».

Gli attacchi nel frattempo proseguirono anche da altri mini-machi, e ovviamente, perché ormai ero stato segnato col sangue dell'agnello sacrificale dagli anziani del villaggio, tutti potevano sentire da lontano l'odore di preda designata dalla comunità degli alfa…ma io continuavo imperterrito a tacere ai loro insulti e a indossare le mie scarpe con le strisce rosa. 
A un certo punto mi sembrava che averle ai piedi mi dava una specie di superpotere. L'eroe "Undicenne-quasi-invisibile" si era trasformato nel mutante "Undicenne-alla-ribalta-con-strisce-rosa". 
Cominciavo a capire che erano davvero un segnale di guerra quelle scarpe, e che erano andate a minare la tranquillità di quella piccola comunità.
Stavo debuttando in società in una parte piuttosto difficile dunque, ma almeno ero diverso da tutta quella melma informe, e consapevole di esserlo.
«’A frocio, ma come la mastichi ‘sta gomma, sembra che c’hai er cefalo ‘mbocca!».
«Aoo’, che te metti i pantaloni stretti pe’ facce vede’ er culo?».
E ancora via così, e molto peggio, nella caccia all'insulto più efficace.

Quando però qualsiasi mio gesto era diventato un motivo per attaccarmi sull'argomento e qualsiasi stronzo-ics poteva azzardarsi a buttarmi là un'umiliante battuta contro, sapendosi coperto dai più, io vacillai. 
Se neanche un titolo del Daily Planet o un supernemico pentito dà ragione a te in una battaglia in cui sei solo contro il mondo, diventa proprio difficile delegare le tue poche certezze di super-undicenne all'auto-convinzione e basta. 
E anche quel David Carradine là, facile parlare bla bla bla, ma se non cominci a menar le mani quando arrivano le prime spinte e i primi insulti declamati in pubblico, che amico sei? 
O quando il primo insospettabile bulletto sul tragitto dalla scuola alla fermata del bus si apre la patta mostrandoti il contenuto come fosse chissà quale sua esclusiva.
Dover subire vessazioni omofobe per settimane non è proprio quel che si dice una passeggiata di salute, figuriamoci per un ragazzino di quell'età, ed è un attimo che ti senti troppo estraneo al mondo e troppo tutti contro per resisterci ancora a lungo in quel mondo. 
In altre parole, ti è cresciuta la morte nel cuore e sei annientato. 
Cenere.

Ma per fortuna quello non era certo il mio unico mondo. 
Non era solo la scuola, in cui ormai in poche crudeli mosse l'intero ambiente mi aveva appioppato il marchio del disonore, o almeno questo sentivo io. 
Non era solo la famiglia, che, dopo la morte di mio nonno e la separazione dei miei, era esplosa in mille pezzi, tutte schegge piccolissime e taglienti. 
E non era solo quell'infinita e noiosa attesa di diventare grandi e liberi il mio mondo. 
Erano i fumetti, che divoravo e poi copiavo per ore, sognando di diventare fumettista. 
Era la "band" che condividevo col vicino di casa, ore e ore ad ascoltare dischi e poi, io alla chitarra e lui ai bidoni del verderame sul palco (ovvero il suo terrazzo) a tenere svegli tutti i vicini con le nostre nenie da gallinacci sotto tortura.
Era la mia cagna Ghira, che adoravo e che ancora mi manca, e con la quale trascorrevo interi pomeriggi a caccia di lucertole nel grande giardino.
Ed erano i pomeriggi in giro in automobile per Roma con mia madre, che vendeva abbigliamento casa per casa e mi dava l'occasione di stare sempre in mezzo a donne e ragazze che mi offrivano merende e poi si provavano abiti su abiti ascoltando, più per gioco che per curiosità, anche il mio parere. 
Un etero-paradiso che mi godevo, nel ruolo di unico maschio, alla faccia di quei burini della scuola media che, ad aver culo, potevano vedere al massimo sottane lise di mamme flaccide e sovrappeso dal buco della serratura.

Insomma, avevo un mio mondo pieno di interessi e la consapevolezza che era molto più ricco di quello di quei mini-machi mi incoraggiava a disprezzarli, anche esteticamente (così come - c'avrete fatto caso - sto facendo anche ora, e lo farò finché non sarà dichiarato reato d'opinione)
A loro era concessa un'agonia pomeridiana di partite di calcetto, chiusi all'oratorio dopo la scuola, dove dire parolacce e fumare, entrambi di nascosto dal prete, era sinonimo di "diventare uomini".
Li disprezzavo con tutto me stesso che quasi mi facevano pena.

Mi feci coraggio, ammisi di essere ormai crollato da tempo, e riportai le esperienze del mio mondo scolastico - ovvero le vessazioni che stavo subendo da settimane - nel mio mondo ricco e sfaccettato - ovvero a mia madre. 
Che fu grandiosa.

«Tu rispondigli a quegli stronzi "si, sono gay embè? Io mi diverto due volte voi una sola!". E ora vengo io a parlare col preside!».

Partimmo in spedizione punitiva. 
Anzi, visto che andavamo esportando la democrazia del mondo ricco e sfaccettato in quello incivile scolastico, partimmo in “missione di pace” ma carichi di bombe, e prima di entrare nell'edificio incontrammo il ripetente con la faccia spettinata dal tifone fermo sulle scale davanti la scuola.
Io lo indicai a mia madre con gesto eloquente e lei gli si parò in faccia: «tu stai cercando guai, vero? Lascia stare subito mio figlio sennò ti rovino e oggi all’uscita mi fai vedere chi è tua madre che gliene dico quattro pure a lei. Anzi, gliene dirà quattro pure il preside perché ci sto andando adesso!».

Vidi la sua faccia decomporsi, era tutto una smorfia di panico, i lineamenti pendevano in discesa, anzi in picchiata, quella faccia divenne liquida, un brodo gelatinoso, e se possibile ancora più brutta della versione-macho occhialuto e digrignante che riservava a me. 
Pregò di non dire nulla ai genitori, e non riuscì a dire altro. 
Ma ormai era troppo troppo troppo tardi. 

Avremmo potuto compatirlo, immaginando un padre e una madre in grado di educarlo solo alla discriminazione e alla violenza, ma ormai i missili democratici di mia madre erano partiti e lui doveva imparare a prendersi le responsabilità delle proprie azioni. 
Questo significa "diventare uomini", caro pisciasotto, mica fumare e dire le parolacce di nascosto là dal prete. Non ti ha mai citato la parola "civiltà" la mamma, eh? Poco male, ci pensa la mia a tatuartela a vita nel cervello, se lo trova.

Gli altri del gruppo si facevano muro, palo, dito a vicenda per non farsi troppo notare e intanto dal cortile mi guardavano con odio, ma io sulla ribalta in cima a quelle scale sapevo che il trucco, quando sei ormai esposto e a conflitto aperto, è non abbassare mai lo sguardo e mostrare una superiorità sovrumana. 
Li indicai a mia madre e solo il gesto del mio dito undicenne li trasformò in vapore. 
Zùt! Spariti.
Avevo le scarpe con le strisce rosa ai piedi, quindi potevo.
Se loro erano le carogne che si mettevano in tanti contro uno più piccolo io ora ero la supercarogna che trascinava sul campo di battaglia la sua esplosiva madre e il minaccioso preside della scuola. La mia atomica contro le loro micciette. La giustizia era dalla mia. 
Ma ce l'avevo portata io.
Passandogli davanti sussurrai al ripetente dalla faccia rimescolata, ormai paonazza e unta di sudore: «Si, so' frocio e allora? Io godo due volte e tu una sola!», pur non avendo granché chiaro questo concetto suggerito da mia madre all'epoca sentivo che poteva rivelargli inaspettati segreti sull'esistenza dell'uomo sulla Terra. 

Il resto della battaglia potete immaginarlo benissimo da voi.

Ci ripenso ora e mi chiedo: perché in quelle settimane di inferno non pensai al suicidio, messo all'angolo com'ero? 
Sono molti i ragazzini vittime di quell'odio provocato da insufficienza di cultura e civiltà che scelgono la morte come soluzione. Troppe cronache recenti lo raccontano e solo una sensibilità tarata su livelli primitivi può continuare a sopportare un simile orrore senza correre subito ai ripari.
Ma io non pensai ad uccidermi, vuoi perché nessuno in famiglia mi ha mai venduto o ha mai permesso che mi vendessero l'aldilà come un posto migliore di questo, vuoi perché avevo tanti interessi che amavo, tra giochi, fumetti, dischi, libri e passeggiate con mia mamma dalle sue clienti, che non avrei mai lasciato per colpa di un'associazione a delinquere di piccoli ignoranti. 
E vuoi perché all'epoca, a undici anni, non avevo la benché minima idea di chi o cosa mi avrebbe attratto sessualmente da maschio adulto, se più i maschi, le femmine o i generi trasversali, quindi non capivo in base a quale strambo dis-ordine di valori quei ragazzini considerassero un gay un individuo inferiore. 
O perché dicessero "femminuccia" a qualcuno per offenderlo, dal momento che, nel mio caso come in tanti altri, era piuttosto chiaro che fossi biologicamente un maschio. 
Il nome comune di un genere sessuale può essere un offesa? 
Ah si? 
E in quale malaugurata civiltà totalmente inconsapevole di se stessa, di grazia? 
In Italia dite? 

E allora perché non farla scomparire questa prevaricazione del maschio sulla femmina, del maschio su ogni altra cosa viva, che noi italiani sentiamo tanto - come altri popoli sottosviluppati d’altronde - e che ci fa credere di dominare ogni diversità? 
Allora si che dare della femminuccia a un ragazzino non avrebbe più alcun senso. 
E dirgli gay non sarebbe un insulto.

C'è un'età in cui i desideri sessuali non hanno mire chiare e precise, li senti crescere all'improvviso e basta, durante un contatto fisico con una cugina o un gioco con un amichetto. 
E chi si permette di colpevolizzare questa magia è un misero imbecille, o peggio se ha anche figliato. Crescete davvero, cari "adulti", prima di azzardarvi ad educare dei figli.
Il ruolo dei genitori, quello dei professori, dei presidi, degli educatori in genere, è dare un muro di certezze affettive ai giovani. 
Questo ha fatto mia madre, e io le devo la vita due volte.
Chi ha un figlio maschio ha il dovere di comportarsi esattamente come farebbe con una femmina, insegnargli l’uguaglianza di diritti e di doveri e il rispetto reciproco fra tutti i sessi, che non sono affatto due, ma infiniti.

E chi amministra questa Italia, ancora una volta, non ha perso l'occasione di farci fare a tutti una spiacevole figura.



Queste scarpe grigie e rosa appese  sono di mia figlia, le mie non esistono più. Sullo sfondo il cielo.

17 settembre 2013

Ai professori, a mia figlia e a Babbo Natale


È ricominciata la scuola. 
Primi giorni in prima media, alla conquista di un mondo nuovo. 
Eppure sembra filare tutto liscio, compagni di classe tranquilli, professori gentili, niente guerre né imboscate, almeno per ora. 
Ma sarà meglio tenere gli occhi ben aperti. 
I professori si comportano come chi ha le necessarie esperienza e delicatezza per comprendere questa traumatica fase di passaggio di un bambino/ragazzino. 
L'arrivo della crudele adolescenza, la primavera in cui sbocciano i nervi, oltre a ormoni, peli, odori, umori e tutta un'altra serie di segnali che lampeggiano sottocarne per ricordarti che nell'Universo tutto si trasforma, ovvero peggiora, compreso tu. 
La prof di francese è anche molto simpatica e quello di italiano, giovane e gentile, è l'esperto della Lim, la lavagna interattiva multimediale che rapisce gli sguardi degli allievi come la luce sul nostro  terrazzo attira le falene alla sera. 

Unico neo il professore di disegno tecnico. 
Il suo esordio non è dei migliori. 
Entra in classe e si avvicina alla cattedra verificando con sguardo minaccioso che tutti si siano alzati in piedi per il saluto. 
Fanno per sedersi e lui li blocca severo: possono tornare comodi soltanto dopo che si sarà accomodato per bene lui. 
E così sia per sempre. 

Preso possesso del palco inizia il monologo messianico. 
«Tutti vi mentono, solo io vi dirò la verità: Babbo Natale non esiste, la Befana non esiste, quelli sono i vostri genitori che vi ingannano da quando siete nati. Lo studio non è affatto divertente, è noioso, e la vita è faticosa. E spero di non essere io il primo a dirvele queste cose»
E via così, a menadito tutto il primo capitolo di "La filosofia dei frustrati e dei perdenti", se mai ne esiste una.
Poi aggiunge che le mattine dell'anno scolastico in cui lo vedranno arrivare su di giri sarà perché la Roma avrà perso e, in quei casi, è meglio non innervosirlo ulteriormente. E, infine, sia chiaro una volta per tutte, non si dovrà mai parlare della Lazio in sua presenza. 

Questo oggi, nell'aula di mia figlia di dieci anni.

Fastidioso, se non altro perché avevo immaginato un momento diverso, molto più privato e poetico di questo appena descritto, per dire io stesso a mia figlia che Babbo Natale siamo io e la mamma. 
E la befana pure. 
Per non parlare del topino dei denti. 
Avrei desiderato essere io l'adulto che gliene parlava per la prima volta, avrei voluto guardarla fissa negli occhi in quel momento per tentare di scoprire se si fidava di più delle rivelazioni dei coetanei frettolosi di crescere o si ostinava a credere ancora nella bella favola dei due anziani filantropi. 

Certo, non sono proprio scemo e so bene che mia figlia sapeva già, prima dell'esibizione del professore, che Babbo Natale non esiste, ma anche lei non vedeva l'ora di prendere quell'argomento con mamma e papà, di parlarne sola con noi, di metterci alla prova e di analizzare sadicamente come avremmo giustificato ai suoi occhi 10 anni di meschine falsità. 
Arrampicandoci su quali invisibili specchi insomma. 
È da qualche mese, infatti, che ad ogni occasione ci ripete che, malgrado le opinioni dei suoi amici, lei a Babbo Natale vuole crederci. 
Insomma, ce la stava rendendo difficile.
Io avevo immaginato di cavarmela proponendogli, al prossimo Natale, di preparare con lei i pacchi dei regali del buon barbuto per la sorellina di due anni. 

Invece oggi un professore che, con estrema naturalezza ha espresso il bisogno di essere considerato unico portatore di verità dai suoi studenti di dieci anni, si è appropriato di questi nostri piccoli sogni. Ci ha fatto un bello scaracchio sopra, porca zozza.

La verità assoluta è la materia degli ignoranti, e tra adulti, oltre che tra educatori, si dovrebbe ben sapere ma, a parte ciò, mi chiedo da dove nasca il recondito bisogno di un adulto di farsi accettare da bambini di dieci anni come leader. 

Caro professore, 
forse fraintendo i Suoi intenti, ma credo di comprendere invece la Sua critica ironia e il Suo atteggiamento cinico e trasgressivo, tendente alla sdrammatizzazione. Ha fatto il simpatico, bella anima punk.
Mi permetta però, proprio perché mi impegno a comprenderLa, di farLe presente che, quando tratta da adulti dei bambini di dieci anni, probabilmente per avvicinarli al Suo modo di pensare, Lei rivela immaturità.
Perché quelli, a dieci anni, sono ancora bambini, non si scappa, e la ricetta per aiutarli a sviluppare un proprio senso critico, compito di qualsiasi educatore, non è quella di negargli ciò che hanno finora accettato come reale o ciò in cui credono, ma quella di proporgli il nuovo che si va a sommare a ciò che già conoscono. 
Fargli scoprire altro, senza costringerli a perdere l'equilibrio. 
Che a darsi le strattonate lo fanno già tra coetanei.
E certi argomenti, ad una certa età, sarebbero esclusiva dei genitori, che non vanno dipinti come adulti che mentono ai figli e li ingannano. 
Scuola e famiglia non dovrebbero mai sfidarsi, bensì collaborare.
Se Lei invece mi invita a ritenere legittimo e tranquillo che un docente si arroghi il diritto di turbare dei ragazzini di prima media con le proprie esclusive rivelazioni anti-establishment, allora mi sta invitando anche a considerare normali gli atteggiamenti di quei professori che fanno sesso con le liceali. O di quei criminali, perché no, che mostrano ai ragazzetti - magari comodi come insospettabili pusher - che il lavoro è una fregatura, i genitori lavoratori sono dei poveri sfigati sempre squattrinati e i veri soldi si fanno solo col crimine. 
Anch'essi sono portatori di verità più vere di quelle altrui e anch'essi vogliono aiutare delle persone in fase di formazione a crescere prima. Si, verso il cinismo compiaciuto.
Massì, certo che esagero, una cosa son le parole e un'altra i fatti, soprattutto quelli illegali, mi perdoni, ma questa è la mia paranoica e dubbiosa verità contro la Sua, assoluta.
Riguardo Roma e Lazio poi, Lei poteva oggettivamente dare prova di maggiore serietà, soprattutto dopo aver accusato i suoi studenti-bambini di vivere di favole.
Se almeno durante le lezioni scolastiche evitassimo di citare il calcio e la sua invadente influenza sul nostro vivere quotidiano faremmo tutti una figura migliore, proprio come Paese intendo.

Ma la violenza ormai si è compiuta. 
Da una battuta di mia figlia ho capito che ha intuito, consciamente o no, le ragioni per cui il professore si è comportato così con loro. «Se lui dice che Babbo Natale non esiste allora per me è lui a non esistere», ha concluso indignata, mentre mi raccontava l'accaduto assieme a una sua compagna di classe. 
Le ho detto: «se vuoi papà interviene, vado a parlare col professore o con la preside. Valuta e dimmi tu la gravità», perché io credo che è meglio farli crescere in questo modo i bambini, invitandoli ad assumersi delle responsabilità.
Ma lei mi ha risposto che preferisce non dare altra importanza a questa vicenda.
Certo, ora potrei tessere lodi alla sua saggezza, ma suppongo, piuttosto, che mi abbia risposto così perché non voglia rischiare né di farne un caso né di essere discriminata dal prof durante tutto l'anno, se non durante i tre. 
Insomma, non gli ha fatto una buonissima impressione.
Io ritengo invece che il professore sarà leale abbastanza da riscattarsi, riconoscendo da sé l'errore commesso. E sono certo che lo farà in  aula coi bambini stessi. 
Da uomo a uomo.

"A prescindere dalla materia specifica che insegna, un docente trasmette inconsapevolmente e involontariamente anche un mondo di valori dalle sue osservazioni buttate lì, da come va vestito, se si spazzola la forfora che ha opacizzato ormai anche le borchie d'ottone del giubbotto in pelle, se va a fare lezione sbarbato o no, se ha il fiato che puzza, se i peli del naso potrebbero o non ancora annodarsi con quelli delle orecchie, se arriva in ritardo o se è puntuale almeno quella volta che è sobrio, se è aperto agli altri per manifesta simpatia o per interessata ipocrisia, se vede un po' di mondo solo grazie alle gite scolastiche per lui gratis o a un po' di spirito di avventura e di acculturazione anche di tasca propria..."
E questa era un'interessante analisi dello scrittore Aldo Busi.

Buon anno scolastico.

(seguono alcune foto scattate durante i lavori al murale che ho realizzato alla scuola materna "Pinocchio" di Perugia lo scorso anno)







Murales realizzati alla scuola materna "Pinocchio" di Perugia, 2012

10 settembre 2013

Adolescemenza

Vedo attorno troppa gente che non viene sfiorata neanche dal lontano sospetto che sia arrivato il momento di dover uscire dall'Adolescemenza.


4 settembre 2013

Migliori delle formiche

Ci incontriamo per la strada e siamo come le formiche, evitiamo di scontrarci, ma poi tiriamo avanti

Non un saluto, spesso neanche uno sguardo, lo evitiamo come se dirsi un facile "Buongiorno" o "Buonasera" fosse motivo di imbarazzo. 

Il problema non si porrebbe se non avessimo la presunzione di essere migliori delle formiche. 

Chissà, magari poi quelle si salutano pure.